La vergogna e le parole

È passato esattamente un mese da quando, su Macerie (e storie di Torino) e su altri siti e poi addirittura sulla prima pagina di un quotidiano nazionale, hanno cominciato a circolare le immagini del massacro nel Cie di Gradisca d’Isonzo del 21 settembre scorso. A occhio e croce, solo nelle differenti riproposizioni apparse su youtube, almeno diecimila persone hanno potuto vedere i feriti distesi a terra in mezzo al sangue, gli occhi gonfi, i segni delle manganellate, i soldati coi caschi e con gli scudi che caricano senza pietà della gente chiusa dentro a quella specie di pollaio infernale costruito e tenuto aperto con il beneplacito di tutti gli schieramenti politici.

Ingenuamente, un compagno nostro, nel vedere in anteprima il breve filmato, ci ha detto convinto: «guardate che siamo ad una svolta, ora che tutti possono vedere cosa sono i Centri, come sono fatti, cosa succede al loro interno, ecco… ora qualcosa deve cambiare per forza!» Uno dei vecchi assiomi  della controinformazione: quando il mostro è eccessivamente mostruoso basta illuminarlo di fronte al grande pubblico e scomparirà da sé, quasi si vergognasse di esistere, proprio come i fantasmi della notte alle prime luci dell’alba.

E invece qui nessuno si vergogna di nulla.

Non si vergognano, ovviamente, le autorità. Dopo la pubblicazione del filmato, la prefettura ha negato tutto e i sindacati di polizia hanno parlato di immagini false o montate ad arte. Poi sono venuti fuori i referti medici dei pestati, alcuni dei reclusi hanno denunciato i poliziotti, un operatore del Centro ha confermato ad un giornalista la veridicità dei filmati (da quel giorno – ha dichiarato – «a casa piango, non dormo, cerco aiuto per vomitare l’amarezza che mi si incolla addosso e non mi lascia tregua insieme all’odore nauseante del sangue»). Solo alla fine di tutti questi passaggi – e dopo aver fatto arrestare uno dei rivoltosi – le autorità hanno ammesso le cariche e le hanno definite, senza vergogna, «una doverosa e regolare reazione alla resistenza a pubblico ufficiale».

Ma, quel che è peggio, non ci vergogniamo nemmeno noi che non abbiamo saputo opporre al massacro di Gradisca una qualche reazione adeguata, una reazione all’altezza dell’indignazione che avrebbe dovuto provocarci il vederlo succedere. Qualcosa si è mosso, per carità. A parte i soliti parlamentari in visita che poi all’uscita del Centro hanno più o meno parlato d’altro e qualche dichiarazione formale di un paio di politici locali ci sono state anche cose belle: presìdi complici, scritte sui muri, iniziative di solidarietà… Ma nulla che ricordasse neanche pallidamente quel moto tutto umano e incontrollabile che ti fa battere i pugni sul tavolo e ti fa dire: «ora basta!»

Sapevamo da tempo che un bel pezzo di mondo ha perso la capacità di indignarsi, che la più cruda delle immagini oramai non riesce a provocare altro che un’alzata di sopracciglia o, peggio, un «probabilmente se la sono cercata». Ma scopriamo che quella stessa capacità l’abbiamo perduta anche noi, e per motivi opposti. A metà del baratro, ogni infamia è normale: ci siamo abituati. E questa abitudine nuova, pure noi, l’abbiamo assunta senza vergogna.

Insomma, ad un mese di distanza, le immagini del massacro nel Cie di Gradisca ci parlano di qualcosa che va oltre alla lotta dentro e contro i Cie. Ci dicono che non basta parlare, che non basta documentare, che non basta “dire forte la verità” – anche quando questa “verità” ci sembra esplosiva. Se forse non è mai bastato, adesso ancora di più. Perché non è la semplice evidenza che muove, ma processi sempre più complessi e inafferrabili. Perché all’urlo non corrispondono più orecchie che lo possano percepire: né le nostre, né quelle degli sfruttati, né tanto meno quelle dell’avversario.

E allora? Noi continueremo a parlare, per carità, continueremo a documentare storie nascoste e a raccontarvi quello che succede dietro le sbarre o nei nostri quartieri. Ma intendiamoci bene: quel che proviamo a segnalarvi, nascosto in mezzo a questi racconti, sono i fili da tirare, l’intrecciarsi delle responsabilità, la fisionomia esatta degli oppressori, le possibilità aperte e le complicità belle che si creano dietro alle quinte. E questi sono tutti elementi che ciascuno di noi e di voi deve saper rimettere in ordine dentro a progetti propri, progetti che scommettano sul mondo e sulle forze che possono sconvolgerlo.

Ma questo è un altro discorso.