A 34 mani

NOTE SULLA LOTTA CONTRO GLI SFRATTI A TORINO

Quello che segue è uno scritto a 34 mani. È stato redatto da alcuni arrestati del 3 giugno e propone una lettura complessiva dell’inchiesta, delle sue implicazioni e cerca anche di raccontare, ancora una volta, due anni di resistenza e lotta nelle strade di Torino.
Proprio come i migliori romanzi d’avventura verrà pubblicato a puntate, e ognuna di queste affronterà un aspetto differente della storia che ci interessa.
Ne immaginerete certamente la difficoltà di redazione, con gli autori dispersi in celle o case di città differenti; qualcuno sottoposto a censura; con i ritardi e i disguidi propri della corrispondenza carceraria. Ne perdonerete dunque la disomogeneità di stile e pure certe contraddizioni di punti di vista e contenuti. Puntata dopo puntata avrete tra le mani un testo collettivo, sì, ma nel senso della pluralità delle voci, della coralità: non c’era a disposizione alcun direttore d’orchestra che potesse dettar la partitura e, del resto, nessuno l’avrebbe voluto avere.

Sul quartiere e la solidarietà.

Dalla prima rivoluzione industriale fino a quarant’anni fa, i quartieri delle grandi città sorgevano e si intrecciavano fisicamente con ritmi e modalità di produzione. A Torino, emblema di tale sovrapposizione tra vita e lavoro, facilmente gli abitanti di Mirafiori si portavano sul pianerottolo e sul tram i rapporti sociali che nascevano in fabbrica (e viceversa), tanto più che i legami fisici e urbanistici tra casa e luogo d’impiego erano fortissimi.
Al di fuori e al di là della sociologia spiccia, e soprattutto del ferreo deterministico legame tra condizioni di lavoro e condizioni di vita, una premessa simile potrebbe contribuire ad affrontare le clamorose differenze tra un quartiere odierno e uno di quaranta/cinquant’anni fa.
La mastodontica, pervasiva, ristrutturazione che il capitalismo ha affrontato all’indomani dell’ “assalto al cielo”, (si intende qui, in modo certamente sbrigativo, la complessa e vasta dinamica rivoluzionaria che ha attraversato l’Italia negli anni tra i 60 e gli 80) lascia segni tangibili anche nella vita individuale e collettiva di chi, una tale ristrutturazione, è costretto a subirla.
Anonimato e frammentazione, quando non astio e delazione, sono le cifre della vita nelle città contemporanee; le esperienze di solidarietà di classe, così diverse e vivide nei 70, sono o recuperate, rese inoffensive (si pensi ai sindacati) o tiepidamente riformiste. In ogni caso incapaci di innescare una nuova trasfigurazione sociale.
Questo, per sommissimi capi, lo scenario in cui si è sviluppata la lotta contro gli sfratti nei quartieri di Porta Palazzo, Aurora e Barriera di Milano, a Torino.
La stragrande maggioranza della popolazione di questi quartieri è accomunata dall’esclusione (d’altronde, seppur i confini di classe si fanno sempre più indecifrabili, sappiamo da che parte stare).
Esclusione da cosa? Sulla scorta di elaborazioni di Alfredo Maria Bonanno oramai ultra ventennali, potremmo riassumere così:

  • esclusione da determinate capacità specifiche;

  • esclusione da determinate cognizioni specifiche;

  • esclusione da determinate zone specifiche;

Siamo quindi di fronte ad uno stadio perfezionato di sfruttamento, che non è più riconducibile solo al posto di lavoro, di alienazione, perché gli individui sono spogliati degli strumenti per comprendere la realtà, e di emarginazione, perché le città si configurano senza più la necessità di ghetti alle periferie, ma son organizzate a “macchia di leopardo”, con zone di esclusione e di inclusione appunto.
Come gruppo specifico di compagni non abbiamo elaborato una soluzione strategica o tattica che portasse la lotta contro gli sfratti al centro di un progetto rivoluzionario, piuttosto è stato l’incontro di circostanze materiali e convinzioni metodologiche che ne hanno favorito nascita e sviluppo.
Alcuni compagni vivono in questi quartieri da anni, altri vi hanno occupato edifici da anni (è il caso di “posti occupati” o appartamenti occupati a scopo abitativo); data la composizione “etnica” della popolazione, molte sono state le occasioni di lotta portate in queste strade e piazze (iniziative contro le retate di senza-documenti, contro collaboratori della macchina delle espulsioni – partiti, associazioni etc –, contro i progetti di riqualificazione e la militarizzazione delle strade), occasioni che hanno portato a conoscenze dirette e indirette nel corso degli anni.
Quando è emersa l’emergenza dello sfratto di un conoscente, ci siamo posti il problema metodologico sul come affrontarla.
Lo sfratto fa parte dell’offensiva quotidiana che una classe conduce contro gli sfruttati. È un aspetto del “Dominio”, che in sé non esiste, ma che si materializza in infiniti progetti pratici.
La sfida che ci siamo posti è stata quella di lottare con i diretti interessati, in un modo diverso rispetto ad altre esperienze di lotta per la casa. Un’assemblea aperta e circoscritta solo a tale lotta – e non uno sportello –, iniziative di lotta diffuse – picchetti, cortei, vari disturbi ai vari soggetti implicati negli sfratti –, esperienze di riappropriazione – nella forma principale delle occupazioni (purtroppo) –.
Gli sfratti sono stati molto più frequenti in questo quadrante di città che altrove, e hanno riguardato sia gli italiani che gli stranieri.
Tuttavia la lotta ha coinvolto soprattutto gli immigrati, molti dei quali maghrebini.
Questo non per chissà quali convinzioni, piuttosto perché, semplicemente, questi quartieri sono abitati in gran parte da immigrati – ieri meridionali, oggi del resto del mondo –. Uomini e donne che non possono contare sul sostegno familiare, una casa o risparmi dei genitori, che sono ora l’unico “stato sociale” rimasto agli italiani.
Un altro motivo può essere ricondotto proprio al come la lotta sia stata impostata, senza sportello di riferimento, ma con picchetti visibili che alimentavano il passaparola dentro le reti di parenti, amici o conoscenti evidentemente più ampie e consistenti tra gli immigrati che non tra italiani.
In ultima istanza, anche i frammenti di immaginario riconducibili a precedenti esperienze di lotta in queste strade o, addirittura e meglio, nelle strade squassate dalle Primavere Arabe al di là del Mediterraneo potrebbero avere contribuito a vivacizzare la lotta.
Dato che lo scopo della lotta non è mai stato la crescita quantitativa, la preponderanza di compagni di lotta maghrebini ha costituito diversi problemi: in primis l’immagine da “amici degli stranieri” o “antirazzisti”, con facile gioco invece di quelle componenti di destra che danno peso all’emergenza-sfratti degli “italiani”, poi, fatto molto più grave, la riduzione della solidarietà a legame di “compaesanità”.
Solo dopo innumerevoli chiarificazioni nelle dinamiche di lotta (ché, si sa, le più belle parole se non si incarnano in gesti chiari e precisi… rimangono tali), si sono riscontrate relazioni di solidarietà reale.
A monte, le lotte di questo tipo pongono la sfida immane (che non spetta solo ai rivoluzionari) della ricostruzione di un humus capace di sostenere e alimentare lo sviluppo di una lotta verso uno sbocco di vasta e generalizzata rottura, un sostrato di solidarietà diffusa che sia davvero materiale e combattiva. Si capisce che innescare una tale dinamica non sia compito astratto, a priori, pedagogico, ma invece sempre contemporaneo a momenti di lotta, di iniziativa di rottura.
“Ri-costruire” perché ogni picco rivoluzionario o anche solo insurrezionale ha avuto bisogno di un tale intreccio, così come ogni banale lotta rivendicativa, una resistenza a medio e ampio raggio, una conflittualità più o meno diffusa. Senza una serie di rapporti di conoscenza, fiducia, affinità, solidarietà che si incarnano in zone territoriali, quartieri, pezzi di città – dunque chiaramente non solo tra compagni –, ogni dinamica rivoluzionaria che voglia avere rapporti con ed effetti sul contesto circostante avrebbe vita breve.
Per usare un’immagine lontana nel tempo ma chiara per gli intenti che vuole avere tale lotta, la battaglia nel quartiere di San Basilio a Roma, con assedi della polizia respinti con gli spari, sarebbe stata possibile in un quartiere dove nessuno si conosce, dove non ci sono dinamiche di lotta?
Infine, discorso lungo sarebbe quello relativo al rapporto con il territorio, che non vuole essere quello di “enclave proletaria” orgogliosa e autonoma, né quello di “zona di contropotere”. E anche le ipotesi libertarie classiche di “autogestione”, nelle condizioni di vita contemporanee, girano a vuoto.
Per le lotte di questi tempi, in cui la spaccatura tra – almeno – due campi di individui continua a persistere, ma in forme molto più complesse e frastagliate che in passato, il minimo necessario è saper riconoscere i propri nemici. Con precisione e fermezza. In questa lotta le parti lese sono i padroni di casa, i loro legali, ufficiali giudiziari e forze dell’ordine.
Poca cosa rispetto al mirabile groviglio di ingiustizie e brutture del mondo. Eppure, proprio per questo, avere un punto da cui attaccare e sapere perché lo si fa, non sembra poco.

 

 Se avete perso la precedente puntata di “A 34 Mani” e ora vi è venuta voglia di leggerla, potete trovarla qui.