Aurora quartiere smart vol.3 – nuvole tetre

I luoghi di produzione costituiscono la città, il loro profitto è ciò che determina l’andamento dei flussi, e al giorno d’oggi, in maniera sempre più pervasiva, impongono forme di razionalizzazione delle relazioni sociali in cui l’immagine e il marketing del paesaggio della città risultano fondamentali per la sua stessa messa a valore. Nell’odierno panorama torinese due sono gli edifici particolarmente pregni di significato in questo senso: il grattacielo di Intesa Sanpaolo e la Nuvola Lavazza, luoghi che plasmano la materia urbana contemporanea così come la fabbrica forgiò quella del XIX secolo.

È duecento anni prima, nell’Inghilterra del ‘600, che si può riscontrare simbolicamente, ma soprattutto dalla prospettiva dell’organizzazione materiale del primo capitalismo industriale, l’invenzione di uno spazio nuovo, destinato a forgiare le città. Divenuta oramai limitata rispetto all’esigenza di moltiplicazione delle merci la produzione al telaio domestico, la quale scandiva la quotidianità anche nel periodo transitorio delle working houses, viene trovata per la produzione l’inedita locazione della fabbrica; luogo questo in cui si sostanzializza la concezione del lavoro e, non meno importante, si mette in atto la sua separazione dal resto dell’attività umana. Ampiamente è risaputo che il frutto di questo divorzio non si riduce solamente all’inserimento del lavoro nel mercato in quanto nuova tipologia di merce, ma soprattutto alla costruzione di una nuova rappresentazione dell’umano, scisso in due spazi ben distinti: lo spazio-fabbrica e lo spazio-casa, la produzione economica e la riproduzione sociale. La divisione del tempo tra vita e lavoro, a partire da queste basi, non è che una netta conseguenza, un’invenzione corollaria figlia dell’edificazione delle strutture industriali nella città moderna e cristalizzata nello sviluppo complessivo in età contemporanea della ville industrielle. La ricreatività dei luoghi dopo-lavoro e dopo-scuola, gli spazi dediti all’intrattenimento culturale e all’esercizio sportivo, la funzionalizzazione degli spostamenti tra un luogo e l’altro con le nascenti infrastrutture della mobilità pubblica sono stati dei perni indispensabili in questo processo. Tuttavia nessuno di questi elementi architettonici e materiali è rimasto legato all’immaginario diffuso della produzione industriale, da inizio novecento in poi, quanto l’aspetto prettamente previdenziale del welfare state e le sue strutture d’accompagnamento, dall’ambulatorio di zona all’edilizia per la manodopera meno abbiente. Nato come sottrazione di una parte del salario reale e dunque corrispondente al ruolo immanente degli individui nella valorizzazione del capitale, ha per quasi un secolo avuto il compito di trasferire una parte di valore economico dalla sfera della produzione a quella complementare della riproduzione sociale. Un organo necessario nel corpus dell’economia industriale, un sostegno specifico alla produzione, ma sempre accompagnato dal vezzo retorico dell’universalità tanto caro allo spirito del tempo del XX secolo, quello in pratica che raccontava di un diritto sociale emanato per tutti.

Nonostante sia passata molta acqua sotto i ponti dai fantomatici “trent’anni d’oro” del welfare state  occidentale, solo a partire dal nuovo millennio è risultato chiaro a tutti che alla ristrutturazione dei modelli lavorativi si sarebbe accompagnata indissolubilmente quella dello stato sociale, una nuova rimodulazione di quella spazio-temporalità color fumo di Londra.
E così, come accadde durante la funzionalizzazione della città industriale, sono le forme architettoniche a costruire il substrato necessario a ogni cambiamento strutturale dell’economia. Su questa scia, l’esempio massimo nel panorama torinese della rifunzionalizzazione urbana è il grattacielo della Sanpaolo, non solo un elemento fisico marchiano nella quasi omogeneità urbanistica del centro sabaudo, barocco su matrice regolare di campo romano. Infatti nella sua progettazione interna rappresenta una nuova forma di narrazione degli intenti del gigante finanziario per il futuro di Torino. Se l’idea di uffici hi-tech presentati con l’etichetta smart non stupisce per lo più nessuno, a destare l’attenzione sono gli spazi in prossimità delle aree di lavoro, primo fra tutti l’asilo nido, che dovrebbe essere gestito a turno dai genitori impiegati Sanpaolo. L’inserimento di un servizio per l’infanzia a qualche metro dalla scrivania del genitore bancario o web designer, è di fatto la riunificazione di quella dimensionalità separata della riproduzione sociale novecentesca. Lungi dal pensiero che ciò sia un ritorno al tempo unico pre-industriale delle case di lavoro, questo “ricongiungimento” è la sperimentazione di un welfare nuovo, non più appartenente alla sfera della riproduzione ma a quella della produzione stessa, tenendo solo retoricamente per buono che ci sia mai stata una divisione sostanziale tra le due.

L’esempio del grattacielo di Renzo Piano parla di una nuova modulazione della concezione dello spazio, al suo interno per la sopracitata rielaborazione dei luoghi del lavoro aziendale, nel suo posizionamento esterno soprattutto per l’importanza come centro degli assi (o Spine, così come vengono chiamate) di sviluppo urbanistico della città. Tuttavia per la sua poca permeabilità ai non addetti ai lavori, tranne per alcuni eventi sporadici, e per il fatto che sia incuneato in una zona amministrativa, quell’edificio preso a sé stante risulta per l’analisi dei processi di riqualificazione meno interessante delle altre strutture in città destinate all’investimento sociale del gigante sabaudo, quelle del welfare privatistico, dai servizi alla persona, a quelli dell’abitare, passando per i progetti di reinserimento sociale.

Come si diceva all’inizio, un altro recente progetto torinese ci suggerisce invece ulteriori spunti su spazi della città investiti nuovamente da massicci interessi: il centro direzionale Lavazza quasi in ultimazione in via Bologna, ovvero la cosiddetta “Nuvola” che incombe sul quartiere di Aurora.

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Perché se è vero, come abbiamo sempre sostenuto, che i segni architettonici che la Compagnia San Paolo lascia su Torino sono corrispondenti ai luoghi del comando (come il grattacielo) ma anche alle ramificazioni esplicite del profitto sociale del colosso bancario (dai Social Housing di Porta Palazzo ai servizi diffusi della cultura o del terzo settore), la nuova sede dirigenziale Lavazza dà spunti più chiari invece sulla concezione dello spazio pubblico. Se la San Paolo avendo dunque le mani in pasta in tutte le aree delle politiche sociali o della sanità ci dice quali siano le evoluzioni del welfare dopo il periodo della città-fabbrica, la Lavazza invece palesa la differenziazione delle funzioni che un edificio di lavoro può espletare oggi attraverso la modulazione dello spazio interno, di quello dei suoi cortili e, per “emanazione”, di quello circostante.

Il progetto che ha modificato l’area dell’ex centrale Enel nel quartiere di Aurora, a firma del milanese Cino Zucchi, ridefinisce la forma dell’isolato che si affaccia su Largo Brescia; un edificio di vetro nero – una nuvola poco promettente, senza ironia – il cui basamento forma una figura fluttuante in cui saranno ricavati due giardini, uno verso via Bologna, l’altro, una più vasta corte interna, che avrà un varco d’ingresso in via Parma. L’architetto sostiene che saranno due nuovi spazi pubblici aperti sulla città insieme a un passaggio attraversabile del piano terra dell’edificio.

Non volendo dare nessuna valenza positiva agli spazi pubblici, che sappiamo benissimo essere lo spazio dello Stato, ci interessa tuttavia vedere i cambiamenti di paradigma di questa concezione e sottolineare come i cortili di proprietà di un’azienda possano essere considerati tali. Progettisti e signori del Comune che hanno stipulato il patto per la riqualificazione attraverso La Nuvola fanno passare uno spazio all’aperto, legato a funzioni specifiche degli interessi aziendali e di riqualificazione di un pezzo di città, come fosse un semplice giardinetto rionale. La concezione di spazio pubblico intesa da Cino Zucchi si configura come un’area permeabile ma non sicuramente accessibile a tutti, non contrattabile nelle modalità del suo utilizzo e sotto il controllo delle forme anguste ricavate sotto allo sguardo di chi sta negli uffici e della sorveglianza vera e propria. Come reagirebbero delle guardie del posto all’ingresso in uno di questi giardini di un gruppetto di ragazzini palla al piede? Spingendoci ancor oltre con l’immaginazione, cosa farebbero se qualcuno decidesse di passare la notte dormendoci dentro?

Non ci vuole altrettanta fantasia per avere una risposta. Certi luoghi, di nuova edificazione o “rigenerati” che siano, sono elementi necessari alla costruzione di una forte tensione simbolica e figurativa delle nuove politiche urbane: legano e connettono fattori strategici della vita sociale in corrispondenza di “fratture”, cioè pezzi di città o quartieri critici in cui si devono ricompattare funzioni di produzione economica e aggregazione di persone che possano con i propri stili di vita (non solo quelli inerenti al consumo) promuoverli, trasformarli, cancellare il ricordo di come venivano vissuti precedentemente.

E così la retorica su quegli spazi aperti, se si tiene ben a mente come oggi è il quartiere di Aurora, non sono che la rappresentazione fisica di una minaccia, indiretta ma perfettamente esplicita: indiretta perché sono destinati a una popolazione diversa da quella che attualmente ancora vive in quartiere, esplicita perché sono l’ennesimo avviso che in questa zona si cercano nuovi abitanti e che quelli meno profittevoli non sono più desiderati. I senza reddito, o quelli che ce l’hanno basso, gli occupanti di case e chi si arrangia per campare, non sono coloro che corrispondono alle esigenze del mercato urbano in questa zona. Magari i diseredati saranno utili in piccoli numeri, come vuole il discorso del mix sociale, per lo svolgimento dei lavori di manutenzione o di cura, ma la maggior parte è già un’eccedenza di cui si stanno sbarazzando soprattutto attraverso l’aumento del costo della vita e nello specifico degli alloggi. Se si prova a cercar casa in affitto in questa lingua di città che a nord costeggia il centro, è quasi impossibile trovarla perché tutte le case vuote sono in vendita: tutti i piccoli proprietari vendono a prezzi stracciati e la flessione del costo di questa offerta porterà a breve a nuove proprietà in grado di permettersi una ristrutturazione generale dei palazzi oggi fatiscenti. Nei prossimi anni ciò segnerà una forte rivalutazione immobiliare e una deperiferizzazione del quartiere. I primi segnali di questo fenomeno si sono già dati e alcuni loft di fresca ristrutturazione sono stati venduti o vengono affittati a prezzi molto alti a giovani professionisti, molti legati alla Lavazza o al suo indotto.

Non sono del resto destinati proprio a loro i fantomatici spazi pubblici dentro alla Nuvola?

Non è per loro il ristorante che troverà spazio proprio dentro Nuvola gestito da un cuoco stellato Michelin?

Non sono per loro, o per gli studenti dell’adiacente ed esosissima scuola IAAD, le nuove panchine a forma di chicco di caffè di Largo Brescia da poco trasformato da incrocio ad ambientazione urbana?

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Un ulteriore spunto sullo spazio pubblico, all’aperto, condiviso, o come chiamar lo vogliano, riguarda giustappunto il Largo Brescia dirimpetto alla nuova sede. La primavera scorsa sono stati ultimati i lavori di ripavimentazione dello slargo e sono comparse delle grosse sedute, fatto che va in contrasto con le tendenze dell’arredo urbano che cercano in tutti i modi di evitare lo stazionamento. Le panchine delle città negli ultimi anni vengono tolte, ridimensionate o divise da braccioli, ma non in questo caso proprio perché chi usufruirà di certi luoghi non saranno certo senzatetto o perdigiorno. Il rapporto coercitivo che stanno costruendo attorno a questo spazio è forse abbastanza sofisticato da permettere anche questo. Le nuove progettualità come questa organizzano nello spazio gli elementi chiave dello sviluppo, innanzitutto oggi un certo tipo di aggregazione. Da una fase precedente della città che aveva l’obiettivo di dare ordine a un quadro economico basato sullo sfruttamento generalizzato della catena di montaggio, sulla proprietà di una casa e di un autoveicolo privato, la pianificazione territoriale ha ora come l’obiettivo di rimettere in moto lo sviluppo in maniera diffusa, di ricrearne le basi urbane in un quadro economico basato sulle idee, sulle reti e sulla possibilità che le classi medie abbiano spazi per incontrarsi; questi possono essere uffici di co-working ma anche giardinetti smart, piazzette vicino alle aziende hi-tech o una galleria d’arte. 

Per quelli che sbracciano per vivere c’è invece la guerra che si fa sempre più sfacciata, e ciò che accade in Aurora ne è solo un piccolissimo esempio.

Ma come direbbe il fulgido Giuseppe Culicchia riferendosi al nuovo palazzo Lavazza, poco importa perché “i cantieri sono sogni”.

Per lui e per molti altri a noi piace immaginare un giorno la sveglia di soprassalto a irrompere nell’onirico.

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“Dall’altra parte havvi due scogli: l’un
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Nè su l’acuto vertice, l’estate
Corra, o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse, e venti piedi:
Sì liscio è il sasso, e la costa superba.
Nel mezzo volta all’Occidente, e all’Orco
S’apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar: giovane arciero,
Che dalla nave disfrenasse il dardo,
Non toccherebbe l’incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par, che un guajolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un Dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,

Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sé nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno,
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior, che a mille a mille
Chiude Anfitrite ne’ suoi gorghi, e nutre.
Nè mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poichè quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
Men l’altro s’alza contrapposto scoglio,
E il dardo tuo ne colpiria la cima.
Grande verdeggia in questo, e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.”