Sì, fuoco ai Cie

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Molti anni fa, un pezzettino del movimento variegato e contraddittorio che si batteva contro gli allora Centri di Permanenza Temporanea propose uno slogan: «Fuoco ai Cpt». Fino a quel momento, e i compagni più attempati se ne ricorderanno, anche negli ambienti più radicali si usava vergare sui muri un più generico «chiudere i Cpt» o anche «chiudere i lager». Fu una questione di lana caprina o, peggio ancora, una testimonianza in più di quel tremendismo verbale fastidioso e supponente che tante volte attecchisce negli ambiti di movimento? Ci sembra proprio di no, soprattutto col senno di poi.

Si trattava allora di sottolineare che la chiusura dei Centri per senza-documenti sarebbe dovuta passare non per la richiesta – fatta con più o meno vigore, non importa – a chi li aveva aperti di tornare sui propri passi; ma su di una lotta di tipo principalmente “distruttivo”, lotta che avrebbe potuto vedere lottare assieme i prigionieri e i solidali da fuori – anche se non sempre contemporaneamente e quasi sempre separati da un muro. Visto che si “chiude” anche per decreto si voleva evitar questo equivoco, ed espressioni come “fuoco a” o “distruggiamo” facevano al caso nostro.

Un po’ come tutte le lotte di tipo “distruttivo”, ovviamente, la lotta contro i Cpt avrebbe dovuto avere i suoi momenti di informazione e di denuncia, avrebbe dovuto produrre documentazione, contatti, avrebbe dovuto tentare di coinvolgere altri pezzi della città immensa degli esclusi. Ma il centro dell’attenzione e degli sforzi sarebbe dovuto rimanere il momento distruttivo. Non in virtù di ricette astratte e sempre valide, ma perché era possibile pensare già allora che strutture come i Cpt potessero venir chiuse, davvero e in tempi non biblici, con la forza delle lotte che vi si sarebbero svolte all’interno o intorno. Si pensava, cioè, che spingere sul pedale della distruzione non fosse soltanto giusto da un punto di vista etico (che non è poco), ma che fosse addirittura efficace. Questi due aspetti non vanno sempre a braccetto: per quanto si smozzichino mura di carceri, per esempio, non è possibile pensare alla chiusura delle carceri se non nel mezzo di una rivoluzione sociale. Inoltre dalle carceri è molto più difficile scappare e nelle carceri è più difficile organizzar sommosse e quindi se da un lato continua a non avere senso chiedere la “chiusura delle galere” a chi le ha costruite, dall’altro è abbastanza normale che le lotte dei reclusi si declinino principalmente in senso rivendicativo intorno alle condizioni di vita dentro, mentre per i senza-documenti il momento rivendicativo, se c’è, è più che altro un’ottima occasione da cogliere per provare ad andarsene, così come le sommosse.

18small.jpgQuesta attenzione dichiarata verso il momento distruttivo era importante anche perché un bel pezzo di movimento che si batteva dall’esterno contro i Centri, allora, metteva la questione a testa in giù, aspettandosi “risposte” da dove non sarebbero mai arrivate. Ricordate quando si diceva «eravamo 30.000, ora siamo 13 Regioni» legando mani e piedi il movimento contro i Centri (in questo caso le trentamila persone sfilate a Torino nel Novembre del 2002) con la conferenza “anti-Cpt” indetta dal neo-governatore pugliese Vendola? Oggi può sembrare incredibile, ma allora c’era chi sperava addirittura in Mercedes Bresso oppure, qualche tempo dopo, in Paolo Ferrero – che entrò nel governo Prodi affermando di voler chiudere i Cpt e finì la sua carriera di ministro con corso Brunelleschi raddoppiato. Da quella ubbriacatura istituzionale in molti, anche in buona fede, non si salvarono e soprattutto non si salvò il grosso del movimento, finito sostanzialmente in ibernazione durante tutto l’infausto periodo dei governi più o meno amici. Giusto per non imparar nulla dal passato, ora c’è chi fa il filo alla Kyenge, anche se questa ha già dichiarato che lei per la chiusura dei Cie non può fare una mazza. (Il fatto che su un tema come quello dei Centri, che oramai quasi tutti definiscono lager, si giochi a scaricabarile sulle singole competenze dei ministeri è una roba oscena che la dice lunga sulla nostra Cécile. Ma questo è un altro discorso).

Se torniamo ai giorni nostri, vediamo bene quanto quello slogan fosse azzeccato; ogni settimana che passa i Centri in Italia perdono un pezzo, in buona parte proprio grazie alle capacità distruttive dei reclusi che hanno fatto uscire “il fuoco delle rivolte” dalle metafore un po’ trite dei nostri volantini. I Cie, nel loro complesso, sono ingovernabili, ed è stata proprio questa palese ingovernabilità a scatenare quella piccola guerra intestina tra Governo, enti gestori e apparati di propaganda alla quale abbiamo assistito il mese passato subito dopo la pubblicazione del famoso video di Lampedusa. Nella storia infame dei Centri per senza-documenti tutti hanno qualcosa da nascondere, tutti hanno interesse a scaricar sul vicino la responsabilità del disastro e tutti intanto cercano di garantirsi una fettina della torta futura (se ci sarà, nel prossimo futuro, una torta da spartirsi). Addirittura Mauro Maurino, il grande capo di uno dei gruppi cooperativo-imprenditoriali che più ha investito sui Cie, che per tanti anni ha nascosto sistematicamente le violenze della polizia a Gradisca, che tanto ha fatto e proposto ed elaborato perché in qualche modo il sistema si salvasse, ora parla apertamente di Cie ridotti a «istituti carcerari» e di «fallimento dello Stato»; e la Croce Rossa – trincerata da anni dietro ad una “imparzialità” che dentro ai Centri non vuol dire altro che complicità attiva con gli aguzzini – ora fa finta di storcere il naso di fronte alle espulsioni e vagheggia futuri “centri d’accoglienza”. I giornalisti pure, dal canto loro, solo in mezzo al casino del mese passato si son messi a descrivere le condizioni di vita nei Cie; e non che a dicembre le condizioni fossero peggiori di prima, o che prima non se ne sapesse nulla, o che mancassero fonti autorevoli o documentazione. Semplicemente, prima, la consegna era stare zitti, o mistificare apertamente, o minimizzare: e i giornalisti, fuorché qualche rarissima eccezione, sono una razza diligente ed ossequiosa.

cpt-manifest1.jpgMa la vicenda che più dà l’idea di quanto le rivolte dei reclusi abbiano messo in crisi tutto il mondo che gira intorno ai Cie, è il famoso affaire di Suor Lidia, del quale tanto si è parlato in città. Ma com’è che una suora che da anni entra ed esce dal Centro e che se ne è sempre stata zitta, ora se ne viene fuori ad invocar la chiusura del Centro? Lei era lì a raccomandar pazienza e sottomissione, e la raccomanda ancora; le rivolte non le piacevano, e tanto meno le piacciono adesso, come non le piacciamo noi che stiamo sempre là fuori ad aggiungere il nostro piccolo peso solidale alla lotta di chi sta dentro. Ma lei ha visto coi propri occhi e in diretta ciò che noi abbiamo sempre e solo sentito raccontare, al telefono o dalla gente che usciva: noi lo abbiamo raccontato ai quattro venti, lei fino all’altroieri no. «Ho già fatto le denunce, ho fatto il mio dovere» – ha risposto nella famosa intervista del mese passato quando il giornalista le chiedeva se avesse mai assistito ad episodi “gravi” come quello del video di Lampedusa. Cosa vuol dire, “ho già fatto le denunce”? Non si parla certo di denunce penali, perché ne sarebbero venuti fuori dei processi e si sarebbe saputo; e neanche ovviamente di denunce alla “pubblica opinione”. “Fare il proprio dovere“, per una come lei non può voler dire null’altro che segnalar gli episodi più spiacevoli alle alte sfere (il capo dell’Ufficio immigrazione, il Prefetto o magari il Vescovo, non lo possiamo sapere) in modo da procurar qualche lavata di capo a poliziotti o soldati troppo esagitati senza fare troppo baccano; lavando i panni, come si dice, in famiglia. Lo stesso stile, del resto, con cui la Chiesa ha preteso di gestire per anni lo “scandalo” dei preti stupratori di ragazzini: nel silenzio assoluto, per non turbare il buon funzionamento dell’istituzione.

Cos’è cambiato da allora? Perché ora persino una come suor Lidia parla? Quel che è cambiato è che oramai è chiaro a tutti che le rivolte dei reclusi hanno aperto delle falle che lo Stato, adesso come adesso, non riesce a riparare; e quando la navi affondano, i topi – che siano suore, grigi funzionari umanitari o rampanti affaristi del sociale – scappano.

Fuoco ai Cie, allora. Questo slogan, che ci è stato già rinfacciato per via giudiziaria dall’immancabile Padalino qualche anno fa, ora è assunto da qualcuno come la causa prima della veloce decadenza di corso Brunelleschi, e con questo di tutti i Centri italiani. In una recente intervista, il segretario del Sindacato Autonomo di Polizia Massimo Montebove ha dichiarato che «gli attivisti di area anarchica svolgono un’efficace propaganda con lo scopo di indurre gli ospiti a distruggere i centri, senza aspettare le modifiche di una legge che è discussa da anni. Lo slogan: “fuoco ai Cie”, sta diventando, anzi è una realtà». Troppa grazia! Se fossero slogan ben coniati e propaganda a far ribellare la gente, la rivoluzione sociale sarebbe bella e che fatta e i soprusi eliminati a colpi di marketing; e poi non è proprio compito degli anarchici dire alla gente cosa deve o non deve fare e quando, soprattutto quando questa gente è chiusa dentro a gabbie circondate da uomini armati. A trasformare in realtà i nostri slogan sono in prima battuta il senso tremendo di ingiustizia per una detenzione che tutti vivono come incomprensibile ancor prima che ingiusta, e poi le condizioni di vita nei Centri e la consapevolezza che basti scavalcare un muro per essere liberi. Tanto che ad essere andati sistematicamente a fuoco in questi anni, pezzo dopo pezzo, sono stati Centri ben lontani dalla propaganda di chicchessia.

chi-paga-la-scritte-di-aurora-e-porta-palazzo-4.jpgAttenzione. Anche se da anni insistiamo a scriver sui muri il nostro “fuoco ai Cie”, sappiamo benissimo che il giorno benedetto in cui finalmente i Cie chiuderanno non succederà che l’ultima stanza dell’ultimo Cie ancora in funzione chiuderà bruciata dal fuoco dell’ultima rivolta, costringendo il Governo ad ammettere la propria sconfitta. Sarebbe bello, certamente, e soprattutto chiaro: ma molto più prosaicamente, invece, le rivolte, le fughe, i danneggiamenti e pure – lo speriamo – la forza pratica e la determinazione del movimento fuori costringeranno il Governo a chiudere le ultime strutture ancora in piedi; e, soprattutto, questo futuro Governo-che-chiuderà-i-Cie non lo farà ammettendo in blocco la propria sconfitta e assumendosi le responsabilità del passato: qualcuno dirà «io non c’entro», altri «chi è venuto prima di noi si è sbagliato» o «lo dicevo da anni che bisognava cambiare», altri ancora tra i ministri addirittura si prenderanno il merito della «chiusura dei lager». Per non dire quel che potrebbe succedere in Parlamento o sui giornali, con accese dichiarazioni pro o contro la chiusura dei Centri – come se il Governo avesse dovuto fare una scelta e non fosse invece stato messo, sostanzialmente, con le spalle al muro dall’ingovernabilità dei Centri. Ci sarà sicuramente chi si farà menare per il naso da queste sceneggiate, ma a noi rimarrà chiaro che sarà stato il fuoco delle rivolte – e non in senso metaforico – a dare lo scossone. È per questo che ora non ci facciamo affatto impressionare dai personaggi più o meno presentabili che da dentro ai palazzi hanno fiutato l’aria che tira e si schierano da una parte o dall’altra per prendersi i meriti del cambiamento che verrà e trasformare le conquiste future, se ci saranno, in graziose concessioni: che siano Grimaldi e i suoi, che domani presenteranno una mozione anti-cie in Consiglio comunale qui a Torino, o Luigi Nieri, il vicesindaco della capitale, o anche Khalik Chaouki, il deputato piddino protagonista del can-can mediatico del mese scorso.

tumblr_mt4ktdfpuk1r7my0vo1_500.jpgMa, sommossa dopo sommossa, incendio dopo incendio, sta affondando davvero la nave oscena dei Centri per senza-documenti? È la volta buona? Probabilmente sì. Ma il rischio che c’è, immediato e dietro l’angolo, è che se ne vari immediatamente un’altra, dove la diminuzione del tempo di permanenza, il repulisti degli enti gestori troppo sputtanati e l’attenzione a chi anziché in un Cie potrebbe finire invece in un Cara verranno barattate con una sostanziale trasformazione di quel che rimane dei Centri in vere e proprie piccole carceri. Dopo i Cpt e i Cie, semplicemente una nuova forma e un nuovo nome nella storia infame della detenzione amministrativa in Italia, da sviluppare insieme ai dispositivi di controllo delegati ai Governi dell’altra sponda del Mediterraneo. Questo è quel che ci è parso di capire non solo dalle dichiarazioni di Natale di Letta, ma pure da quel che si sa dei progetti di ristrutturazione di Trapani-Milo e dai ragionamenti fatti ad alta voce in queste settimane dagli enti gestori, che ancora sperano in una torta futura da spartirsi; e anche dalla voluta ambiguità di tutti i pezzi grossi e piccoli che si sono espressi sull’argomento in questo mese, che han continuamente mescolato nei loro discorsi la chiusura dei Cie, il loro superamento, e la revisione complessiva del “sistema dell’accoglienza“. Confusione interessata, giacché il problema è la detenzione amministrativa, e la detenzione amministrativa o c’è o non c’è, non può essere superata e di per sé non c’entra nulla con alcuna forma di “accoglienza”. Se si ritiene di dover chiudere i Cie perché la detenzione amministrativa non va bene, l’alternativa ai Cie è semplicemente… la libertà, e ogni discorso più articolato ci deve suonare sospetto.

Insomma, non c’è stato forse momento nella loro storia nel quale i Centri fossero tanto vicini alla chiusura come è oggi. Ma c’è il rischio che sulle loro ceneri nasca un qualcosa di molto simile e niente affatto migliore. Quel che succederà dipenderà innanzitutto dalla forza che sapranno mantenere in questi mesi quelle lotte distruttive che, senza aspettare niente da nessuno, hanno determinato la crisi dei Cie e messo in subbuglio il mondo di affaristi appiccicosi che ruota loro intorno. Ancora una volta, allora, è proprio il caso di dire: «fuoco ai Cie».