Vetri rotti e nervi scoperti

connecting peopleCome forse sapete (ne abbiamo parlato qui a fianco) qualche notte fa una mano ignota ha rotto un vetro della sede del consorzio Kairòs, in via Lulli 8 a Torino. Un piccolo pensiero per un consorzio di cooperative sociali che, aderendo a Connecting People, partecipa alla gestione di diversi Centri di identificazione ed espulsione, tra cui quello di Gradisca (in provincia di Gorizia) e quello di Restinco (in provincia di Brindisi). E anche un piccolo gesto di solidarietà con le rivolte dei prigionieri senza-documenti che – pezzo dopo pezzo – stanno sfasciando e bruciando le prigioni che li rinchiudono (come è successo, guardacaso, proprio a Gradisca e a Restinco, per citare solo gli ultimi episodi).

Questo vetro rotto, e le scritte lasciate di contorno, devono aver fatto innervosire non poco Mauro Maurino, ex-direttore di Kairòs e attuale amministratore di Connecting People. Che infatti ha deciso di rilasciare un’intervista addirittura a Massimo Numa, noto agente della questura di Torino in comodato d’uso gratuito al quotidiano La Stampa, per ribadire che né lui né Connecting People stanno pensando minimamente di mollare la presa sul grande business dei Cie: «La scelta non cambia: noi forniamo servizi alla persona a uomini rinchiusi. Si vuole impedire che vengano dati agli immigrati servizi essenziali per poter, attraverso questo, legittimare e accelerare l’esplosione di questi luoghi. Chi specula politicamente vorrebbe abbassare il livello di vita nei centri.»

Per comprendere quanto Connecting People ci tenga a continuare imperterrita a “fornire servizi alla persona a uomini rinchiusi”, e come non si lasci intimidire da niente e da nessuno, basta considerare l’annosa vicenda del rinnovo dell’appalto per la gestione del Cie di Gradisca: esclusa in un primo tempo dalla gara per alcune irregolarità tecniche, Connecting People non demorde e presenta ricorso; lo vince, e ora attende speranzosa di vedersi rinnovato il contratto. Nel frattempo, continua a fornire i suoi “servizi alla persona” nonostante l’ingratitudine dei reclusi, che hanno recentemente completato la distruzione di tutte le sezioni, e per questo sono costretti a vivere per terra nei corridoi.

A sentire le parole di Maurino, se dipendesse solo da lui e da Connecting People nei Centri di identificazione ed espulsione si starebbe benissimo. Il problema è però che periodicamente i reclusi stessi, al posto di ringraziare e stare buoni, si rivoltano e incendiano e distruggono le strutture che li tengono prigionieri. Ma anche per questo problema, Maurino ha la sua spiegazione, affidata alla penna di Giorgio Gibertini del web-magazine “Figli & Famiglia”: «Oggi esiste un movimento politico che ritiene che gli immigrati possano diventare uno strumento di “rivoluzione”. Non considera l’uomo ma considera il fenomeno migratorio come occasione che mette in discussione la società in modo radicale. Questa movimento ha lanciato la strategia del “Fuoco ai Cie”. Strategia che si concretizza nei Centri in episodi come quello di Gradisca.»

E, dopo aver nascosto dietro uno slogan le cause sociali del disastro che è pagato per gestire, Maurino ci tiene a dire che comunque la rivolta non ha senso, è roba da matti, una strada che non porta da nessuna parte, perché alla fine, se reclusi ed aguzzini non vanno d’amore e d’accordo, ci perdono tutti: gli uni, gli altri, e le persone intorno. Infatti «gli effetti [delle rivolte] sono deleteri a più livelli: (i) per noi gestori è difficile dare i servizi necessari alle persone ad affrontare sei mesi che contengono fallimento e sofferenza; (ii) chi è chiamato alla sicurezza viceversa si vede costretto a diminuire gli spazi di libertà all’interno delle strutture; (iii) le persone che vi soggiornano di fatto vedono diminuire la loro qualità della vita; (iv) i fuochi spaventano i territori e rafforzano stereotipi che certamente non spingono verso l’accoglienza ma soltanto verso la chiusura. Alla fine del fuoco nessuno ha guadagnato nulla. Se anche bruciassero tutti i Cie si passerebbe soltanto ad una fase di maggiore chiusura e conflitto.»

Insomma “se anche bruciassero tutti i Cie” staremmo tutti molto peggio. C’era un tempo in cui il movimento contro i Cpt polemizzava con coloro che dall’opposizione ai Centri stavano passando in tutta fretta alla “cogestione” dei Centri. Il dibattito potrebbe essere così riassunto:

– Visto che questi posti esistono, è meglio che sia io a gestirli, in modo da garantire un trattamento umano

– Ma, così facendo, con il tuo collaborazionismo stai giustificando l’esistenza di quei posti

Oggigiorno, evidentemente, il pensiero dei collaborazionisti come Maurino ha fatto innegabili passi da gigante, al punto che costoro non sono più neanche in grado di immaginare un mondo senza lager. Anzi, sono sicuri che un mondo senza lager sarebbe indubitabilmente peggiore di quello attuale. Per definizione, i “progressisti” non concepiscono passi indietro.

Tornando all’intervista di Maurino a Massimo Numa, è abbastanza scontato che buona parte di essa sia dedicata ad attaccare questi anarchici che si sono incaponiti a rompergli le scatole. Come le rivolte dei reclusi sono senza senso, così anche chi solidarizza con esse deve essere un po’ bacato. «Quale obiettivo pensano di raggiungere? Vogliono fare paura. Semplicemente fare paura. E, attraverso la paura, condizionare. Un’idea rozza ma non priva di efficacia, che vale la pena esaminare. È l’idea di un uomo in balia dei suoi sentimenti più viscerali, incapace di scegliere per ideale, per convinzione religiosa, per senso civico; robaccia superabile scagliando cubetti di porfido, vergando scritte minacciose per far trionfare l’istinto di conservazione. Una paura da diffondere non solo tra i “capitalisti” incarnati nella dirigenza di Connecting People, ma anche tra tutti coloro che per mille ragioni e qualche sofferenza arrivano nella nostra sede (…) La violenza degli anarchici ormai da due anni aleggia nei nostri uffici (…). Un anno e mezzo fa, nella sede di Gradisca d’Isonzo, è arrivato un plico-bomba. Non ci sono state vittime solo per un incredibile colpo di fortuna. Subito dopo c’è stato l’attentato alla Bocconi e poi tutti gli altri… Con noi, quella mattina, c’era un ex militare, reduce dall’Afghanistan; ha visto l’involucro, ha capito, lo ha fatto esplodere lontano, spingendo via i miei collaboratori.»

E qui, Maurino rivela – forse involontariamente? – un vero e proprio scoop: nei loro uffici sono di casa dei “reduci dall’Afghanistan”. Non sappiamo se parli di Luigi del Ciello, il militare in pensione che dirige il Centro di Gradisca, o di qualche suo ex commilitone, magari un po’ più giovane ed esperto nelle procedure di trattamento dei prigionieri di guerra. Fatto sta che, evidentemente, Maurino non si vergogna di ammettere che collabora con persone che per professione e – che sia chiaro – nel nome della legge e nel rispetto del diritto internazionale e delle Nazioni Unite, ammazzano, bombardano, distruggono, e a volte pure stuprano. A meno di non voler credere alla propaganda del governo, secondo cui i militari italiani sono impegnati in “missioni di pace”. E allora che Maurino pensi e dica ciò che vuole, ma che almeno ci risparmi i suoi sproloqui sulla “paura”, sulle “minacce”, sulla “violenza”, sugli “ideali”. Perché, altrimenti, saremmo costretti a pensare che, secondo lui, un mondo senza militari sarebbe un mondo peggiore di quello di oggi. O che forse, più probabilmente, Mauro Maurino parli solo a vanvera.

 

«I Cie sono polveriere pronte a esplodere»

Parla l’amministratore di Connecting people che opera nei centri

di Massimo Numa

Torino. I Cie? Una polveriera pronta ad esplodere. E i politici, di destra o sinistra, non importa, non hanno capito cosa sta succedendo dentro i centri. Mentre procura e Digos stanno operando al meglio, nella direzione giusta, una parte della magistratura ha valutato, in sede di giudizio, una serie di gravissimi episodi di violenza politica in modo assai superficiale. Aumentando così il livello di pericolo per strutture e operatori». Parla Mauro Maurino, presidente di Kairos e amministratore di Connecting People, il consorzio che si occupa di servizi e di logistica nei Cie. Nei giorni scorsi la sede di via Lulli ha subito l’ennesimo attacco da parte degli anarco-insurrezionalisti, gli stessi che, dall’esterno, pilotano e guidano, ormai da mesi e con effetti devastanti (avvalendosi persino della consulenza di un pool di legali vicini all’ala più violenta degli antagonisti), rivolte e distruzioni.

Presidente, lei ha paura? «Diciamo che sono consapevole che la soglia d’attenzione è stata già ampiamente superata. Un anno e mezzo fa, nella sede di Gradisca d’Isonzo, è arrivato un plico-bomba. Non ci sono state vittime solo per un incredibile colpo di fortuna. Subito dopo c’è stato l’attentato alla Bocconi e poi tutti gli altri… Con noi, quella mattina, c’era un ex militare, reduce dall’Afghanistan; ha visto l’involucro, ha capito, lo ha fatto esplodere lontano, spingendo via i miei collaboratori. Io invece mi ritrovo con il mio nome al centro di pesanti minacce continue, una precisa schedatura personale. Sono un bersaglio per chi, da tempo, ha scelto di abbandonare forme di protesta legali. Adesso bisogna provare a capire a che punto della strada sono già arrivati».

Lei non lo dice, ma si sa che – alcuni mesi fa – in via Lulli, tre individui erano in strada, lo stavano aspettando. Cosa è successo? «E’ vero, è successo anche questo. Ma non sono abituato a subire intimidazioni, ho vissuto il clima delle manifestazioni e non ho niente da nascondere. Così sono sceso, li ho affrontati: “Cercate me?». Si sono allontanati. Ho fatto una segnalazione alla Digos, so che sono stati identificati. Due soggetti di Rovereto, uno di Torino».

Nel Nord Est opera XXX YYY, spesso in Piemonte e dintorni, considerato il leader più importante e carismatico del movimento che ha fatto della guerra ai Cie il centro di un’azione di contrasto dai toni ossessivi. L’ultimo episodio, come lo giudica? «Un attentato vile e dunque di poco valore. Gli anarchici hanno danneggiato una vetrata della sede del consorzio Kairos e scritto slogan contro Connecting People. Quale obiettivo pensano di raggiungere? Vogliono fare paura. Semplicemente fare paura. E, attraverso la paura, condizionare. Un’idea rozza ma non priva di efficacia, che vale la pena esaminare. E’ l’idea di un uomo in balia dei suoi sentimenti più viscerali, incapace di scegliere per ideale, per convinzione religiosa, per senso civico; robaccia superabile scagliando cubetti di porfido, vergando scritte minacciose per far trionfare l’istinto di conservazione. Una paura da diffondere non solo tra i “capitalisti” incarnati nella dirigenza di Connecting People, ma anche tra tutti coloro che per mille ragioni e qualche sofferenza arrivano nella nostra sede».

C’è il rischio di un passo indietro, dopo le intimidazioni? «La violenza degli anarchici ormai da due anni aleggia nei nostri uffici, si tenta dunque di creare un clima di paura. Ma non per questo cambieremo le nostre scelte. La scelta non cambia: noi forniamo servizi alla persona a uomini rinchiusi. Si vuole impedire che vengano dati agli immigrati servizi essenziali per poter, attraverso questo, legittimare e accelerare l’esplosione di questi luoghi. Chi specula politicamente vorrebbe abbassare il livello di vita nei centri».

(La Stampa – 20 marzo 2011)

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Intervista a Mauro Maurino sull’emergenza Lampedusa

di Giorgio Gibertini

Maurino, siamo in piena emergenza sbarchi e subito dopo i primi arrivi Connecting People ha comunicato alla stampa la propria disponibilità a collaborare col Governo. Che cosa intendevate dire con questa comunicazione? Precisiamo che l’Italia ha un sistema di accoglienza che è predisposto per fronteggiare una richiesta di asilo, accoglienza e contenimento. Innanzitutto in queste ore bisogna dare efficienza a questo sistema, che è ordinario ed è in grado di dare risposte utili a fronteggiare la situazione

Come il governo può aiutare l’ordinario? Rispettando i contratti che ha in essere , pagando i gestori dei centri che così riescono a lavorare con più efficacia.

Ma è sufficiente questo ora? No, probabilmente per via del numero, no! Allora una volta saturato l’ordinario si avvia lo straordinario e sullo straordinario Connecting, come credo Caritas ed altre organizzazioni, sono pronte ad accogliere persone e a definire tutto ciò che concerne l’accoglienza in un secondo momento. Adesso siamo di fronte ad una emergenza e quindi il primo problema è dare aiuto alle persone: cibo, vestiario casa, cure mediche. Connecting People nella passata emergenza ha attivato delle strutture che sono state dismesse ma che sono riattivabili nel giro di poche ore questo perché siamo una organizzazione dedicata a questo tipo di attività. Abbiamo competenze, personale specializzato, una cultura capace di accogliere e nello stesso tempo porre in modo preciso le condizioni di questa accoglienza alle persone con cui entriamo in contatto. Abbiamo a tuttoggi una disponibilità di 400 posti straordinari.

Da più parti si parla di un rischio invasione, il Ministero dell’Interno teme lo sbarco di 80 mila persone provenienti dal Nord Africa: sarà invasione secondo voi? Il problema sta nella definizione. Se ci immaginiamo invasi, chiunque sbarchi è un invasore. Se invece si prende atto che una parte del mondo vicino a noi è in subbuglio, e da sempre in queste situazioni vi è anche movimento di popolo (non è solo la globalizzazione ad aver generato spostamento dei popoli) allora verifichiamo se siamo capaci di aiutare i paesi a dare condizioni dignitose di vita ai loro cittadini oppure sarà inevitabile che il tema dell’invasione o accoglienza ci accompagnerà sempre. Siamo di fronte a un fenomeno che non arresteremo per tempi indefiniti, un fenomeno con luci e ombre di cui paghiamo il prezzo e godiamo dei vantaggi. Faccio un esempio. Quando nel dopoguerra gli istriani sono venuti a centinaia di migliaia per qualcuno erano degli italiani che tornavano a casa per altri erano fascisti. La diversa prospettiva cambiava radicalmente il modo di rapportarsi con le persone (non con il movimento di popolo) e quindi anche l’idea di convivenza e di qualità della vita che ne derivava. L’invasione cosiddetta è anche incentivata da risposte affrettate come quella di Mineo.

Perché ritiene quella di Mineo una risposta affrettata? Mineo è problematico per più ragioni. Una legata ai numeri. Nei centri oggi viene fatto un lavoro particolare che richiede attenzione e che spesso non è compatibile con dimensioni troppo elevate. Con questi numeri la diagnosi e la prevenzione sanitaria diventano problematiche così come è molto difficile l’attenzione alla persone vulnerabili (tratta delle donne vittime di tortura) che necessitano di un supporto psicologico e di una attenzione particolare. Dico di più: di fronte ad una ipotesi di tensione e di rivolta, col coinvolgimento di settemila persone, chi interviene? L’esercito? Chi sarà in grado di garantire la sicurezza? Cosa può succedere a Mineo se settemila migranti decidono che non stanno loro bene le cose così come sono? Mineo assolutamente non garantisce sicurezza! Infine è un’ingenuità dire svuotiamo i cara e li trasformiamo in Cie. Questo non accade naturalmente, poiché i CIE richiedono strutture che non sono necessariamente rappresentate dagli attuali cara. L’adattamento richiede spese, e tempi non indifferenti, spesso per avere strutture inefficienti e non in grado di servire allo scopo del contenimento. Visto che l’Italia ha uno strumento ordinario per gestire il fenomeno perché avviare immediatamente qualcosa di straordinario?

Ma secondo lei è possibile ragionare sulla gestione normale anche nel momento emergenziale? Si afferma che si vuole interrompere il flusso di arrivi e poi si garantisce agli sbarcati un villaggio fatto di villette, piscine , palestre. Naturalmente non si riflette sull’effetto richiamo che avrebbe una scelta del genere. Non si tratta di frustrare le attese di persone che arrivano in Italia per inseguire un sogno ma nemmeno di incentivare l’idea che nel nostro paese tutto è dato, tutto è facile e dunque… Nel concentrare su un unico territorio i rifugiati si dimentica che oggi nel “disperdere” le persone si ottiene che tanti territori si sono attivati per integrare queste persone. Possiamo immaginare che concentrando a Mineo otteniamo lo stesso effetto? Dopo Mineo, dove andranno? come potremo verificare i percorsi di queste persone. Oggi la nostra decennale esperienza ci insegna che spesso siamo in grado di continuare ad avere rapporti con loro, continuare ad aiutare ma anche ottenere da,loro per il nostro Paese per il semplice fatto che piano piano diventano membri della comunità e dei territori in cui sono stati ospitati. Mineo non sarà la stessa cosa. E’ una scelta totalmente sbagliata ed affrettata.

La cronaca ci ha riportato, subito dopo i primi sbarchi, di incidenti, scontri ed incendi nel Cara di Gradisca da voi gestito: come vede questo fatto? Oggi esiste un movimento politico che ritiene che gli immigrati possano diventare uno strumento di “rivoluzione”. Non considera l’uomo ma considera il fenomeno migratorio come occasione che mette in discussione la società in modo radicale. Questa movimento ha lanciato la strategia del “Fuoco ai Cie”. Strategia che si concretizza nei centri in episodi come quello di Gradisca. Gli effetti sono deleteri a più livelli. Nei fatti impedisce ai vari attori che intervengono di raggiungere i propri scopi istituzionali. Per noi gestori è difficile dare i servizi necessari alle persone ad affrontare 6 mesi che contengono fallimento e sofferenza, per chi è chiamato alla sicurezza viceversa si vede costretto a diminuire gli spazi di libertà all’interno delle strutture. Le persone che vi soggiornano di fatto vedono diminuire la loro qualità della vita. In generale fenomeni come i fuochi spaventano i territori e rafforzano stereotipi che certamente non spingono verso l’accoglienza ma soltanto verso la chiusura. Alla fine del fuoco nessuno ha guadagnato nulla. Se anche bruciassero tutti i Cie si passerebbe soltanto ad una fase di maggiore chiusura e conflitto. Usiamo le occasioni di discussione per ragionare sulla riforma di queste strutture, sulla costruzione di significato per questo periodo di sei mesi che appare ai più ingiusto e inutile. Difficile ottenere qualcosa di buono dalle persone che vivono sei mesi senza riuscire a dare un minimo significato al loro tempo.

(Figli & Famiglia – 16 febbraio 2011)

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