Inseguendo la chimera pt. 6

NOTE A PARTIRE DALL’OPERAZIONE SCINTILLA

Dopo mesi concitati, nel tentativo di dare una degna risposta allo sgombero dell’Asilo e all’arresto di sei compagni e compagne, nel tentativo di mantenere viva la voglia di lottare in questa città, ci prendiamo ora il tempo di fare alcuni ragionamenti su questo teorema inquisitorio partorito dalla Questura, fatto proprio dalla Procura e avvallato da una GIP. Un teorema che per il momento non ha retto il primo impatto con il Tribunale del Riesame, dopo tre mesi sono infatti usciti dal carcere cinque compagni, ma che costringe ancora Silvia tra quelle mura e in condizioni di detenzione particolarmente afflittive.

A indagini ancora aperte vale la pena spendere sopra queste carte qualche parola, tra le altre cose perché contiene alcune indicazioni che sono il segno dei tempi su come costringere certi anarchici al silenzio, seppur non del tutto nuove. Già quindici anni fa infatti si poteva leggere in un libretto, dal titolo ‘L’anarchismo al bando’, di come le strategie repressive mirassero a “togliere agli anarchici ogni possibilità di agire in gruppi di più persone articolando anche alla luce del sole il loro intervento, proprio in quanto finalizzato all’insurrezione generalizzata”.

Questo lavoro di analisi uscirà a puntate, una alla settimana, che si concentreranno su alcune specificità dell’operazione Scintilla e della lotta contro i Centri di detenzione per immigrati. A scriverle sono alcuni compagni, alcuni imputati e indagati in quest’inchiesta, altri no, che nel corso degli anni si sono battuti contro la detenzione amministrativa.

La pienezza 

Le lotte reali sono un fatto sociale, e quindi anche la lotta contro la reclusione amministrativa dei senza-documenti non è una sfida a singolar tenzone contro lo Stato lanciata da un manipolo di sovversivi. Come tutte le lotte reali procede per alti e bassi, è fatta di iniziative individuali e collettive, dentro e fuori i Centri, ed è per questo che il tentativo di ricondurre il tutto al disegno criminoso di un’associazione sovversiva non può che risultare una forzatura. Le raffinate e alquanto noiose menti della Questura non hanno saputo fare di meglio che descrivere un fantomatico “progetto criminoso” composto di ancora più improbabili fasi: dall’epoca dei proclami incendiari di cui I Cieli bruciano sarebbe la punta di diamante nonché il vero “documento programmatico” si è passati alle azioni violente e infine si è ripiegati sull’istigazione alle rivolte dei reclusi. Il linguaggio farraginoso della Procura non può minimamente sfiorare la realtà di una lotta complessa e variegata, tutt’altro che consequenziale, sia nelle persone che vi hanno partecipato sia nelle azioni e iniziative messe in campo negli anni. Una lotta che ha avuto il suo picco distruttivo a cavallo tra 2011 e 2012, quando la capienza dei centri in tutta la penisola era ai minimi storici e si iniziava a ipotizzare la loro reale scomparsa, cosa che la controparte non ha minimamente considerato, a riprova dei reali intenti che persegue e della narrazione che le fa comodo utilizzare. Il linguaggio della Procura, come in tante altre inchieste anche molto recenti, non solo piega la descrizione di una lotta ai propri scopi ma anche quella del gruppo stesso di compagni che l’hanno portata avanti: “l’azione degli associati, rimasta celata dietro la mera attività contestativa e appunto sociale della matrice di appartenenza, si è di fatto sviluppata ed evoluta ponendosi a metà strada tra l’insurrezionalismo sociale e quello più propriamente lottarmatista” – “azione celata dietro attività pubbliche e cosiddette sociali”.

I richiami alla distruzione e al fuoco nella lotta contro la reclusione amministrativa risalgono alla notte dei tempi, quando i Centri si chiamavano CPT e la maggior parte degli indagati non era neanche maggiorenne, e il significato di certe espressioni è già stato spiegato in tempi non sospetti. Descrivere gli accusati come qualcosa di diverso dal movimento per come era fino ad allora non ha quindi alcun senso. Ancor meno ciarlare di famigerati “salti di qualità” e quant’altro.

Anche l’accusa di essere istigatori delle rivolte nei Centri di reclusione per senza-documenti non è certo una novità, e a riguardo sono già stati scritti fiumi di parole. Senza troppa fantasia nelle carte dell’operazione Scintilla si descrivono i contatti con i reclusi come “incessante attività di istigazione diretta ad accendere e alimentare le proteste”. Un tocco di creatività nella supposta svolta verso l’istigazione lo si ritrova quando i compagni vengono accusati di aver scelto di “elaborare nuove metodologie e strategie per riprendere in maggior sicurezza il proprio programma criminoso” a partire da dicembre 2016, dopo che ad alcuni era stato prelevato il DNA. Gli arresti con conseguente prelievo, descritti in un recente articolo come un “escamotage” architettato apposta, sembravano già all’epoca pretestuosi e ora, sotto questa nuova luce, appaiono decisamente inquietanti.

Macchinazioni questurine e tribunalizie a parte, una cosa va detta senza mezzi termini a proposito dei rapporti tra solidali e reclusi: la loro ricostruzione è una grossolana e insolente falsificazione storica. Grossolana perché nel solo periodo preso in esame nelle carte e quindi da gennaio 2015 (supposta nascita dell’associazione sovversiva) a dicembre 2016 (supposto cambio di strategia post-prelievo DNA) nel Centro di Torino ci sono state almeno cinque rivolte accompagnate dall’incendio di pezzi significativi della struttura. Della maggior parte di queste rivolte, in quanto non funzionali alla ricostruzione degli inquirenti, non c’è menzione nell’ordinanza. Insolente perché l’idea che i reclusi dei Centri siano pedine di una strategia da muovere con saggezza e prudenza come in una partita a dama può probabilmente tornare utile al polemismo di certi anarchici e agli inquirenti alla ricerca di prove delle loro assurde tesi, ma oltre che falsa è un insulto a tutti quei compagni che si sono battuti apertamente e con costanza contro la reclusione amministrativa in questi anni, rispettando le scelte dei reclusi dei Centri che sono sempre stati gli unici a decidere se, quando e come rivoltarsi e mettendo in gioco la propria libertà non certo per calcoli politici o tornaconti personali.

I reclusi dei Centri si sono sempre ribellati e sempre si ribelleranno, con o senza la presenza di solidali all’esterno. A chi fuori ha cercato di agire è sempre toccato scegliere se portare avanti un piano di intervento prettamente individuale e separato, concentrandosi in modo assoluto sull’azione diretta e sul tipo di pratica messo in campo, come se in sé e per sé potesse bastare a portare ai ferri corti col mondo della reclusione amministrativa; oppure affiancare l’intervento individuale a un più ampio tentativo di coordinazione con i reclusi, a costo di lasciare al nemico una quantità infinita di comunicazioni telefoniche intercettate, testi di analisi, racconti e discussioni. Le tante iniziative che gli inquirenti descrivono come “messaggi cartacei inseriti in palline da tennis lanciate all’interno del locale CPR al fine di instaurare preventivi contatti con gli stranieri ivi trattenuti”, “fomentare i trattenuti riferendo notizie sulla distruzione di altri CPR”, “mettere in contatto gli extracomunitari trattenuti nei vari CIE” e anche aver “fraudolentemente introdotto nel locale CPR fiammiferi ed accendini” sono patrimonio storico di questa lotta al pari dell’iniziativa autonoma, e anche per questo vanno difese.

Ma nelle carte dell’operazione Scintilla oltre all’istigazione c’è di più, e questa sembra un’assoluta novità: le attenzioni degli inquirenti si sono concentrate anche su quei compagni che “si attivavano per fornire un avvocato e generi di prima necessità in carcere” agli arrestati dopo una rivolta. Sovversivi che si occupano di solidarietà spicciola e materiale, roba da far rizzare i capelli a chi sentenziava che i rivoluzionari possono occuparsi d’altro, dato che la società borghese offre sufficienti avvocati assistenti sociali o preti che si occupino dell’aiuto tecnico/legale. Ma soprattutto una novità che evidenzia quanto i tempi siano assai cupi se l’assistenza materiale nei confronti di un recluso arrestato diventa oggetto di un’inchiesta per associazione sovversiva. Vorremmo tutti dedicarci esclusivamente ad attività più entusiasmanti e avvincenti, ma se la rivoluzione o anche solo la distruzione di un pezzetto di questo mondo vuole essere condivisa direttamente (e non solo platonicamente) con degli sfruttati, allora occorre dedicarsi a tutta una serie di aspetti nelle relazioni umane e di fiducia che sono complementari, e a volte anche un trampolino, per la condivisione di momenti di rivolta più allargati. Una cura dei rapporti che chi ci governa, a quanto pare, sta cercando di recidere, attaccando la pienezza e la pluralità di una lotta intera.

Se vi siete persi le puntate precedenti di Inseguendo la chimera potete leggerle cliccando sotto.

Attorno a un perché

Silenzi

Segugi e alchimisti [In questa puntata ci siamo accorti di aver scritto un’imprecisione a cui abbiamo posto rimedio. L’errata corrige riguarda un passaggio nel quale si afferma che delle microspie erano state messe in una abitazione privata dove aveva vissuto per un periodo un compagno imputato. In realtà, come modificato nel testo, quel compagno non ci ha mai vissuto e si trattava di una mera supposizione della Digos, mostrando quindi quanto sia facile essere autorizzati a ficcare il naso negli affari di persone non solo non indagate ma anche non così centrali nelle reti di relazioni e rapporti dei compagni e delle compagne imputate. Senza contare che le microspie (per non sbagliare) sono state lasciate in casa pronte ad essere attivate all’occorrenza, anche se la Digos aveva espressamente richiesto all’epoca di stoppare l’intercettazione perché non era stato rilevato materiale utile in senso probatorio.]

Nelle strade, oltre le mura

Gli strumenti di lotta al vaglio