Piazza pulita?

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“Piazza pulita“. Così potrebbe chiamarsi, se avesse un nome, l’operazione che dall’aprile scorso Questura e Procura di Torino stanno conducendo contro alcuni compagni che vivono e lottano principalmente nei quartieri della Barriera di Milano e di Porta Palazzo. Potrebbe perché, a differenza di altre operazioni giudiziarie avvenute altrove contro degli anarchici, dai nomi più o meno fantasiosi (Ardire, Mangiafuoco, Thor, Ixodidae, Outlaw etc.), in questo caso gli inquirenti torinesi almeno per il momento hanno scelto una strada diversa. Più discreta e anonima, che però aggiunge qualche ingrediente in più alla ricetta della repressione in Italia.

Non la “grossa inchiesta” che coinvolge un gran numero di compagni e contesta loro un reato associativo sorretto, spesso ma non sempre, dai vari reati specifici, ma tante inchieste più piccole con specifici capi d’imputazione per i quali vengono richieste ed ottenute misure cautelari di vario tipo. Non che “la grossa inchiesta” sia scomparsa dalla progettualità questurina: questa probabilmente continua ad essere proposta periodicamente e senza far baccano alla magistratura perché da un lato giustifica la proroga infinita delle intercettazioni telefoniche e ambientali contro i compagni, e dall’altro rappresenta una carta da tenere sempre pronta da parte. Per fare un esempio torinese: la retata del febbraio 2010 con la quale si contestava l’associazione a delinquere ad alcuni dei partecipanti alla “assemblea antirazzista” cittadina è scattata giusto due mesi dopo il fallimento del tentativo di colpire alcuni di loro con la sorveglianza speciale. I due procedimenti erano stati tenuti in piedi parallelamente, uno nell’ombra e l’altro alla luce del sole: incagliatosi uno è stato rilanciato l’altro. Ovviamente non sappiamo dire con esattezza quali carte abbiano in mano in questo momento Questura e Tribunale, né come le giocheranno questa volta (se siano una alternativa all’altra, o se una prepari il terreno per l’altra, per esempio). Ma possiamo individuare le peculiarità innovative di questi dispositivi repressivi quando queste emergono.

Nel nostro caso, per esempio, un qualsiasi reato di resistenza – contestato per aver tentato di impedire alla polizia di portar via un amico o un compagno – condito con altre imputazioni come lesioni, violenza o rapina a seconda del gusto degli inquirenti, viene ripescato dopo alcune settimane e grazie all’intesa tra Questura, Pm e Gip trasformato in carcere, arresti domiciliari, obblighi o divieti di dimora, firme, a seconda del gusto dei giudici. Gli episodi contestati abitualmente sono abbastanza piccoli per cui le misure detentive rientrano abbastanza velocemente ma non le altre misure cautelari che, meno afflittive, sono gravate da clausole più flessibili consentendo una maggior “spensieratezza” ai giudici e rimanendo così in piedi per mesi.
Per chi poi ha avuto la “fortuna” di non essere stato cacciato ma di essersi visto applicare l’obbligo di dimora o di firma a Torino gli inquirenti stanno adottando un altro stratagemma: al primo nuovo reato contestato la misura cautelare può essere aggravata e trasformata in carcere o arresti domiciliari. La vicenda di Marianna e di Simona – arrestate una prima volta per l’occupazione dell’Unep, subito liberate con obbligo di firma e poi ri-arrestate perché hanno continuato a partecipare ad iniziative e quindi a prendere denunce – è esemplare. Ma non è strettamente necessario che il nuovo reato sia identico o anche solamente simile a quello per cui si era obbligati a Torino, come dimostra invece più recentemente la vicenda di Niccolò, denunciato a piede libero per furto mentre era sottoposto ad un obbligo di dimora per resistenza e quindi ri-arrestato. Scoperto questo meccanismo e lanciate una dopo l’altra diverse operazioni simili, negli ultimi sei mesi la Questura è riuscita ad allontanare dalla lotte in città una quindicina di compagni grazie ad espulsioni o divieti di dimora.
L’abito confezionato nelle stanze della Procura sembra proprio fatto a puntino per i compagni di questo pezzo di città, dove la lotta contro gli sfratti e la macchina delle espulsioni e la presenza in strada contro riqualificazione, controlli e militarizzazione danno occasione quasi quotidiana agli inquirenti per riempire i propri taccuini di nomi e reati da contestare. Reati spesso piccoli, ma sufficienti ad alimentare il meccanismo che vi abbiamo descritto; a questo bisogna aggiungere il fatto che una parte consistente degli anarchici che vivono qui sono nati altrove, a volte all’estero, e questo favorisce l’applicazione del bando, avvicinando alcuni aspetti delle condizioni di vita dei sovversivi del quartiere a quella dei senza-documenti che ne affollano le strade.
A dire il vero ultimamente i giudici si stanno allargando e neanche il vivere in una casa di proprietà, avere un lavoro regolare ed essere residente in città da diversi anni sono garanzie sufficienti contro la minaccia di essere allontanati forzatamente da Torino: giusto in questi giorni un compagno con tutte le “garanzie” sopra citate è potuto rientrare in città dopo venti giorni di esilio. Significativa la motivazione del Tribunale del Riesame che non ha dato peso agli aspetti materiali, e per di più ufficialmente certificati, che legano questo compagno alla città: il suo divieto di dimora è infatti stato annullato per un semplice vizio di forma. Non sentendosela ancora di avallare un provvedimento simile ma volendo salvare capra e cavoli, il Riesame si è ben guardato dal contraddire nel merito la Procura, mentre non si è fatto problemi a controfirmare apertamente le misure contro gli altri imputati, anche quelli residenti in città da anni o iscritti all’Università. Per gradi successivi, passo passo, si crea il precedente che consentirà di cacciare chiunque dalla città.
Checché ne pensino gli anarchici, anche per i giudici il lavoro salariato e la proprietà privata hanno ormai perso la loro aura di sacralità: quello che conta è disperdere i sovversivi, tenerli lontani dai loro compagni e dal contesto delle lotte cittadine. Molto esplicite del resto erano state alcuni mesi prima le parole di un giudice che, nel respingere la richiesta di una compagna di scontare i propri arresti domiciliari in città (richiesta accompagnata per altro da un contratto d’affitto), le negava il ritorno a Torino per impedire «il riavvicinamento al contesto criminale». Motivazioni adottate in genere in presenza di reati associativi piuttosto che per una “semplice” resistenza a pubblico ufficiale.
E per terminare questa rassegna, vi segnaliamo anche il sistematico rifiuto da parte dei magistrati torinesi di concedere gli arresti domiciliari ai compagni in case che non siano quella dei genitori – preferibilmente fuori città. Un atteggiamento moralisteggiante e paternalista, che legge l’impegno e la voglia di lottare come un vezzo da ragazzini, da rimettere in riga con le buone o con le cattive.
L’attività degli ultimi anni, del resto, ha creato non pochi problemi alle autorità cittadine e minacciava di crearne di ben maggiori se gli episodi di resistenza e le relazioni con gli abitanti del quartiere avessero continuato ad intensificarsi e stringersi con quel ritmo. Così, dopo un anno abbondante di totale impasse della Questura, che in zona non solo non riusciva ad eseguire sfratti ma incontrava anche qualche ostacolo nel quotidiano controllo del territorio, gli appunti questurini sono usciti dai fascicoli nei quali giacevano in attesa di diventare piccoli mattoni per una futura grande retata ed hanno iniziato a trasformarsi, uno per uno, in misure cautelari.
A dare il la a questa ondata repressiva nella primavera scorsa hanno sicuramente contribuito le pressioni delle associazioni dei piccoli proprietari – che non riuscivano ad aver la meglio dei loro inquilini morosi -, delle banche – che sono state costrette a congelare le esecuzioni dei pignoramenti immobiliari – e degli ufficiali giudiziari, che impossibilitati ad eseguire gli sfratti venivano regolarmente circondati e presi a male parole senza che le forze dell’ordine riuscissero a garantire loro la dovuta protezione. Da non sottovalutare poi il crescente disagio avvertito dalle stesse Forze dell’ordine, Digos in testa, che per diversi mesi non riuscivano più ad effettuare in quartiere fermi di compagni, né a svolgere in tutta tranquillità il costante controllo del territorio, incontrando sulla loro strada una crescente arroganza e determinazione. Non è un caso, dunque, che la modalità repressiva della quale vi stiamo parlando sia uscita dalle stanze della Procura proprio nelle stesse settimane in cui gli ufficiali giudiziari decidevano di sospendere sistematicamente gli sfratti trasformandoli in probabili sgomberi a sorpresa, il Comune faceva annusare la possibilità di accordi separati ad alcuni gruppi di sfrattati per separarli dalla lotta, i giornali lanciavano allarmi su “Porta Palazzo luna-park degli anarchici”, la Questura sgomberava un po’ di occupazioni abitative, attaccava militarmente alcuni picchetti e metteva a disposizione del Commissariato locale camionette su camionette di celerini pronti per qualsiasi evenienza.
Un suo peso poi su queste vicende torinesi l’ha avuto indubbiamente il cambio di passo verificatosi negli ultimi mesi nella repressione della lotta contro il Tav in Valsusa. Pressoché identico il pool di Pm incaricato di contrastare la resistenza nelle strade di Barriera di Milano e nei sentieri di Chiomonte e Giaglione. E anche in Valsusa, in mancanza o in attesa di una grossa inchiesta associativa, gli inquirenti si sono impegnati per lo più a contestare, con una frequenza crescente negli ultimi tempi, reati specifici ottenendo quasi sempre misure cautelari più o meno lievi e durature. Anche in Valsusa dunque, grazie all’assoluta acquiescenza del Tribunale torinese, si sono riusciti a metter fuori gioco con il minimo sforzo un gran numero di oppositori del treno veloce. È evidente che in una strategia simile, l’investitura ricevuta a livello nazionale dai vari Rinaudo, Padalino e Ausiello come persecutori della lotta che al momento maggiormente preoccupa le autorità nazionali gioca un enorme peso sulla capacità di ottenere dai giudici l’avallo a richieste di misure cautelari, tanto in Valsusa quanto a Torino. Specie poi se molti dei compagni colpiti da misure sono attivi in entrambe.
Quella che abbiamo voluto chiamare “Piazza pulita“, dunque, non è che l’aspetto tecnico-legale di un dispositivo repressivo più ampio – probabilmente elaborato dopo le barricate del 18 settembre 2013 in uno dei periodici Tavoli per la sicurezza che si tengono in Prefettura – in cui ciascuno (Sindaco, Questore, Procuratore capo, ecc.) ha dato il suo contributo. E se “Piazza pulita” funziona bene contro gli anarchici è perché il resto del dispositivo repressivo, intanto, è riuscito ad allentare i vincoli di solidarietà sviluppati con altri compagni di strada, restringendo le possibilità di una risposta sociale alle misure poliziesche e, contemporaneamente, gli spazi per delle reazioni anche solo “militanti”. Se confrontiamo le reazioni messe in campo in primavera, sia socialmente che come movimento specifico, dopo il primo arresto di Marianna, Simona e Claudia o dopo quello di Paolo, Greg e Marta con quelle agli arresti di questo autunno… sembra essere cambiata era geologica, non solo stagione.
Il rapporto tra i diversi elementi di questo dispositivo repressivo (quello tecnico-giudiziario e quello poliziesco, ma anche quello del recupero politico e della propaganda mediatica, per esempio) probabilmente è la parte più interessante di queste nostre vicende torinesi, ma non è propriamente l’argomento di queste righe. Basterà per ora notare che la repressione non è qualcosa che improvvisamente arriva e prende alle spalle i militanti (con retate, misure preventive, ecc.) ma qualcosa che riguarda tutti, che c’è già e che garantisce il buon funzionamento della macchina sociale: banalmente, la repressione è anche l’ufficiale giudiziario e il controllore dell’autobus, non solo il poliziotto o il magistrato. Ne consegue che come le lotte possono far arretrare la repressione in determinate porzioni di territorio (nel nostro caso: gli ufficiali giudiziari che dicono «io a lavorare in Barriera non ci vado più»), quando questa vuole riprendere terreno deve per forza agire sul terreno delle lotte, e quindi non solo su quello strettamente giudiziario o poliziesco.
Al momento dunque il bilancio di “Piazza pulita” è di un compagno in carcere, uno agli arresti domiciliari, una compagna con l’obbligo di dimora in un paesino fuori città, una dozzina banditi da Torino e un compagno invece obbligato a risiedervi, due compagni infine costretti a firmare in Questura. A questo elenco si aggiungono poi i decreti di espulsione, dai tre ai cinque anni, contro cinque compagni francesi e svariati fogli di via.
Se alcuni di questi provvedimenti sono abbastanza recenti e mostrano come la strategia degli inquirenti non sia terminata nel maggio scorso, quando arresti, sgomberi di case occupate e sfratti a sorpresa si sono succeduti con una frequenza quasi quotidiana, altri invece durano ormai da più di sei mesi.
Tecnicamente parlando, l’efficacia di questa strategia sembra stare proprio nella facilità con cui misure cautelari come i divieti di dimora possono venire comminate e prorogate, non essendo così restrittive come il carcere o gli arresti domiciliari. Misure di questo tipo, poi, non suscitano quell’attenzione che, pur nella situazione di bassa in cui ci troviamo, possono provocare comunque le “grosse inchieste”. Consentono insomma di liberare una città dagli elementi indesiderati, con il minimo sforzo ed il massimo risultato.
Da sottolineare come la situazione torinese non sia poi una novità assoluta. Un’attenzione per la pulizia simile a quella riservata dalle autorità cittadine alle strade di Barriera di Milano e Porta Palazzo ha riguardato negli ultimi anni anche i vicoli di un’altra città poco lontana da Torino, Genova. Anche nella città ligure, infatti, obblighi di dimora notturni e obblighi di firma variabili (nei quali cioè la Questura decide di volta in volta anche il Commissariato e l’ora della firma per impedire la partecipazione a manifestazioni) sono stati utilizzati, durando diversi mesi, con una certa sistematicità per colpire persone indesiderate. Anche a Genova poi queste misure cautelari, oltre che colpire nell’immediato, sono state utilizzate come una spada di Damocle sempre pronta a calare sulla testa del compagno di turno: alla prima occasione basta una denuncia e prontamente l’obbligo di dimora si trasforma in una misura cautelare più grave.
Nel caso di Genova poi non è necessario neanche elaborare ipotesi sulle strategie e gli obiettivi degli inquirenti, a chiarirli con una limpidezza ragguardevole le parole con cui un Gip genovese ci spiega che “giacché la tensione sociale crescerà, chi ha le misure cautelari è bene che se le tenga”: parole che di certo  sottoscriverebbero serenamente anche i suoi colleghi torinesi.

(Frutto di una discussione tra alcuni dei compagni della Barriera di Milano e di Porta Palazzo, il testo che precede tenta di dare una visione d’insieme del puzzle studiato da Procura e Questura a danno delle lotte in quartiere e dei sovversivi che hanno contribuito ad animarle. Altri contributi in questo senso potete ascoltarli, se ve ne è rimasta la voglia, in una recente chiacchierata ai microfoni di Radio Blackout, ed in una meno recente a quelli milanesi di Radiocane.)